Pubblichiamo oggi il bell’articolo di Stefano Semeraro, apparso l’undici dicembre scorso, su Stampa.it.
E’ un articolo che parla chiaro, chissà che non insegni qualcosa a coloro che scrivono sulle pagine dei giornali cittadini e ai “voltagabbana” di cui un giorno ci ricorderemo.
11/12/2006 (7:2) – L’ULTIMO TRICOLORE NEL 1990
La mischia più dura. Il baratro di Rovigo
Da Galles d’Italia a modello schiacciato dal professionismo.
La culla del rugby vive tra debiti e paura di retrocedere. Di STEFANO SEMERARO
Vitalino ha il microfono in mano e gli occhi buoni pieni di lacrime. «Ragazzi – dice – Non dovete avere paura. Dovete giocare tranquilli. Dovete solo andare a Roma e spaccargli il c… . Perché se va male, qui va male per tutti». Parte un applauso, nel caldo della club house del Battaglini che sa di polenta e vino rosso. Dentro ci sono la squadra, i dirigenti, i tifosi. Fuori i pali ad H, la nebbia, le luci della bassa che non riescono a illuminare una notte sportiva che da troppi anni non si decide a finire. In fondo al buio che dura da 15 sconfitte consecutive, 7 nel campionato scorso, 8 quest’anno, c’è una cosa inimmaginabile che si chiama retrocessione. Una cosa che, anche da straultimi in classifica, qui a Rovigo neppure vogliono nominare. Neppure dopo la sconfitta tanto temuta da Vitalino, arrivata contro la Capitolina, venerdì scorso. Vitalino di cognome fa Belloni, è uno dei soci del Rugby Club Aldo Milani, anno di fondazione 1972. Rovigo per il rugby è come la Juve e il Toro messi insieme. Blasone e dolore, miseria e nobiltà. Un club fondato nel ‘35 da Dino Lanzoni, studente a Bologna, che in Veneto portò il pallone ovale e quindici maglie rossoblù. Il rugby allora era faccenda per «siori», universitari, grandi città. Nel dopoguerra Rovigo, insieme a L’Aquila, incarnò la riscossa di strapaese. Undici scudetti. Il primo nel 1951, l’anno dell’alluvione, quando il Polesine finì sotto il Po. Il 19 novembre Rovigo fu evacuata, da queste terre fuggirono come topi in 150mila. La squadra di «Maci» Battaglini, il Maciste ovale, era una fune legata al futuro. Nelle campagne umiliate la gente faticava a «metter so la pignatta», ma agli allenamenti arrivava con un «toco» di pane, una fetta di formaggio. Il Galles d’Italia: campi al posto delle miniere, stessa povertà, stesso orgoglio, stessi campioni. L’ultimo scudetto nel ‘90, l’ultimo grande sponsor, Sanson. Poi troppa penombra, troppi errori. L’ultima bandiera, Andrea «Pepe» Scanavacca, se ne è andato l’anno scorso, destinazione Calvisano. «Per disperazione, credo», sospira Umberto Nalio, direttore sportivo, che lotta con banche e fornitori, escogitando acrobazie finanziarie alla Tremonti (l’ultima, lo sponsor volante). Negli ultimi sei anni gestioni scriteriate e velleitarie avevano portato la società quasi al fallimento. Stipendi in ritardo di mesi, luce tagliata, collette organizzate allo stadio per sostenere la squadra. A luglio il Rovigo Rugby, Presidente Lauro Pavanello, avrebbe potuto evaporare nei debiti. Il rugby «fato grando dai poareti, disfà dai siori». Fatto grande dai poveri, distrutto dai ricchi. Il 7 agosto è partito il salvataggio, sostenuto nell’ombra dalla vecchia proprietà e guidata da una triade composta da Nalio, dal neo-presidente Ugo Taddeo, medico, ex-pilone, e da Beppe Melloni. Obiettivo: tenere la squadra nel Super 10, recuperare quasi due milioni di debiti. Senza contare la quota di passato finita nella spazzatura. Letteralmente: «Un giorno passo per un mercatino – racconta Melloni – e un ambulante mi fa: “interessano delle cose del rugby?” C’era di tutto, foto, documenti, che qualcuno aveva preso e mai restituito».
Taddeo non riparmia sull’entusiasmo, ma ha lo sguardo allarmato. «Scontiamo le fatiche di questi anni, la preparazione ritardata, la sfortuna e certe «disattenzioni» arbitrali. La società però adesso c’è, stiamo pagando tutti. E questa squadra deve salvarsi». Davvero? «La retrocessione è un incubo – sorride amaro Marco Barion, 31 anni, capitano e terza linea, rodigino doc – La notte non ci dormo. Rovigo respira rugby, se esci la gente chiede spiegazioni». Il vice-capitano si chiama Tommaso Reato, 22 anni, seconda linea, studi di filosofia, tesi su Kierkegaard. «Qui il rugby è ancora ruspante. In squadra ci sono stranieri, tanti argentini, ma si parla italiano. Quelli di Viadana in campo li senti parlare solo inglese». La crisi di Rovigo è la crisi di un modello antico. Del rugby casereccio cresciuto all’ombra del campanile, oggi destinato a schiantarsi contro le regole e i costi nandrolonizzati dello sport-business. Un giocatore di punta in Francia guadagna 300-400 mila euro all’anno. A Rovigo gli stipendi mensili vanno dai 300 euro dei ragazzini ai 3.000 scarsi della stella Manuel Contepomi, nazionale argentino. Reato è figlio dell’ex presidente dell’assoindustriali del Veneto, a cui è appena succeduto Antonio Costato, titolare della Grandi Molini, piccolo Ferruzzi del Polesine. Costato è l’uomo che in questi ultimi anni ha foraggiato il rugby a Rovigo, e che continua a farlo oggi attraverso la Femi Cz, lo sponsor della squadra dell’alleato e amico Zambelli. C’è lui dietro le garanzie da un milione di euro che ha in tasca Taddeo, ma oltre una sopravvivenza da crepacuore il mecenate dal braccio corto non va. Non scuce i 3,4 milioni di euro all’anno che servirebbero a pensare in grande. Rovigo è rimasta l’unica provincia veneta a godere di contributi Unione europea, l’economia si muove, ma il rugby non smuove capitali. Anzi: patisce l’inedita concorrenza del calcio, in testa alla C2. L’ex «città in mischia» osserva, mugugna, spera. Vicina, ma non troppo. Ai tempi d’oro, per un Petrarca-Rovigo c’erano 20mila spettatori, nell’88 per lo scudetto della stella a Roma da Rovigo sul treno rossoblù salirono in 5mila. Oggi al Battaglini vanno in 800-1000. Molti per la paradossale situazione del rugby italiano, fatto di una Nazionale nobile, di una federazione ricca e di un campionato appassito. Ma pochi per attirare sponsor e televisioni. «Alla salvezza del Rovigo ci credo – butta lì Alessandro Zanella, l’allenatore – A quella del rugby italiano un po’ meno». «Il presidente Dondi ha fatto un buon lavoro» si scalda Doro Quaglio, 65 anni, vecchio ragazzo incandescente del rugby italiano. «Ha messo gli schei nelle casse federali. Ma ora deve redistribuirli. Bisogna investire sui club che come Rovigo creano ancora giocatori invece di comprarli già fatti». I vecchi paesi del rugby italiano soffocano, i nuovi piccoli ma ricchi – Viadana, Calvisano – vivono forse al di sopra dei propri mezzi. Che fare? «Io telefono a Moggi», digrigna semiserio lo juventino Nalio, detergendosi la fronte. «Se è riuscito a fare solo la metà di quello che dicono, merita un monumento». Xe peso el tacon del sbrego – peggio la toppa del buco – dicono da queste parti.